Nata nel 1986 come “Movimento per la tutela e il diritto al piacere”, Slow Food è stata tra le prime organizzazioni a criticare il sistema agroalimentare “fast” e a proporre un’alternativa “slow” per dare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, dei territori e delle tradizioni locali, dell’ambiente e degli ecosistemi. Un filosofia alternativa alla dominante idea di cibo industriale illustrata da Silvio Barbero, tra i fondatori di Slow Food e oggi vice presidente dell’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (CN).
D. Malgrado la crescita, l’agricoltura sostenibile rimane minoritaria. Perché non riusciamo a cambiare modello?
R. I sistemi sostenibili sono in costante crescita da anni. Oggi l’acquisto di prodotti biologici si attesta su una percentuale tra il 9 e il 10 %, inoltre molte realtà stanno andando verso una produzione più naturale, anche se non necessariamente certificata. È auspicabile che la percentuale di biologico aumenti per venire incontro a sempre crescenti esigenze di ambiente e salute. Purtroppo intorno al cibo ruotano interessi mastodontici con conseguenti speculazioni finanziarie sulle materie prime alimentari e industrializzazione della produzione poco rispettosa del benessere delle persone e degli ecosistemi. Cambiare il sistema è una battaglia durissima nel quale è in gioco il futuro dell’umanità: se non riusciamo a raggiungere una sostenibilità agricola e zootecnia i cambiamenti climatici creeranno grandi problemi, quale il calo dei raccolti e la perdita di terreni fertili. Di fatto, se non cambiamo rotta andiamo a sbattere contro un muro.
D. Cosa dobbiamo fare per evitare l’impatto?
R. Bisogna agire in due direzioni. Da una parte è necessaria un’attività culturale per sensibilizzare le giovani generazioni verso un approccio naturale ed etico al mondo del cibo. E coinvolgere le comunità. Una soluzione efficace come dimostra il progetto Terra Madre, che raggruppa migliaia di Comunità del Cibo impegnate in tutto il mondo a tutelare la sovranità alimentare e a salvaguardare le risorse naturali. La seconda battaglia è con le istituzioni, soprattutto con i rappresentanti di Unione europea e l’Organizzazione mondiale del commercio. Come Slow Food facciamo un’attività di lobby per orientarli ad un’agricoltura sostenibile, non solo possibile, ma auspicabile. È un attività difficile perché dobbiamo lottare contro certi modelli di industria alimentare e i loro forti interessi. Eppure qualche risultato si è ottenuto. Basti pensare allo spreco alimentare, tema sconosciuto fino a un decennio fa e ora divenuto un argomento di dibattito sfociato con l’approvazione di norme specifiche in Italia, Francia e altri paesi. Può sembrare poco, ma è molto perché lo spreco alimentare è speculare al modello industriale dove l’importante è produrre e fatturare senza pensare alle future generazioni.
D. Un decennio per ottenere un risultato è un tempo lungo con la crisi climatica in corso. Crede che abbiamo ancora tempo per attuare i cambiamenti?
R. I tempi di politici e società civile sono troppo lenti. Se andiamo avanti così lo schianto contro il muro è inevitabile. Più che la politica, è la società civile che deve reagire. Le singole persone e le comunità locali. Se ci muoviamo dal basso possiamo ottenere molti risultati. Lo dimostra il successo nella campagna contro l’olio di palma che, con tutte le sue contraddizioni, ha indotto parte dell’industria a toglierlo dai prodotti. E lo conferma il successo dei farmers market negli Stati Uniti, passati in pochi anni da 100 a più di 8.000, segno che la sensibilità sta cambiando.
D. L’agricoltura sostenibile costa e ha resa bassa. Può competere con quella industriale?
R. Oggi produciamo cibo per 12 miliardi di persone e ne sprechiamo circa il 40%. Il tema non è produrre di più, è farlo meglio e in modo più sostenibile. Dobbiamo erodere il business delle poche multinazionali del cibo, fare politiche contro la concentrazione e la finanza alimentare che hanno impatti negativi sull’ambiente, provocano povertà e problemi sanitari. A livello mondiale dobbiamo puntare alla sovranità alimentare dei popoli seguendo modelli di agricoltura familiari che già oggi danno da vivere al 60% della popolazione mondiale in maniera sostenibile.
D. E in Italia?
R. In Italia dovremmo dare più valore al cibo e investire in un’alimentazione sana. Oggi per nutrirci spendiamo circa il 10% del reddito, meno di quanto utilizziamo per gli acquisti degli smartphone. È un’assurdità. Compriamo a 2 euro/kg carote pagate al 0,08 euro/kg al contadino. È evidente che qualcosa non funziona. Dovremmo investire di più in qualità e comprendere che i prezzi bassi spesso sono a danno delle persone povere, costrette a nutrirsi con cibo di scarsa qualità che provoca obesità e malattie. Il nostro obiettivo è opposto: consentire ai meno abbienti di mangiare cibi sani e gustosi. Dobbiamo rivedere la filiera distributiva. In Italia la spesa alimentare avviene per il 90% presso la grande distribuzione, dove il divario di prezzo tra campi e scaffali è più evidente. Dobbiamo sviluppare sistemi distributivi alternativi come vendita diretta, Gas, comunità di supporto agricolo, mercatini locali o botteghe alimentari. Se riusciamo a far crescere questi canali possiamo anche indurre la grande distribuzione ad adottare politiche più eque.
D. In realtà alcuni vi criticano di essere un’élite?
R.Chi lo sostiene non conosce bene l’associazione, forse anche per una nostra difficoltà di comunicazione. Slow Food è Terra Madre, sono gli Orti in condotta nelle scuole, i 10.000 orti in Africa per la sussistenza sostenibile e i Mercati della Terra con cibo sano a prezzi accessibili. Con la Fondazione Slow Food sosteniamo ecoprogetti in tutto il mondo e all’Università di Scienze Gastronomiche destiniamo più del 10% del bilancio in borse di studio parziali o totali che consentono a studenti meritevoli e meno abbienti di frequentare i nostri corsi.