Ci sono volute più di 1000 vittime e 2500 feriti per spostare i riflettori dalle passerelle delle sfilate di moda alla cruda realtà del settore tessile. È il 24 aprile 2013 e in una cittadina del Bangladesh alle porte di Dacca crolla un palazzo di 8 piani dove almeno 5.000 persone lavorano per le griffe occidentali del tessile.
D’improvviso il mondo si accorge che gli abiti seducenti nei quali siamo avvolti sono creati dalle mani di operai sottopagati che lavorano in luoghi insalubri e insicuri. Condizioni lontane dal garantire una vita dignitosa e dal rispetto dei diritti umani. L’indignazione è forte, ma come le tinte delle vesti scolorisce con il tempo e lo sfruttamento può proseguire. Anzi, arrivare nell’Est Europa e varcare i nostri confini approfittando del calo di vigilanza in una filiera, lunga e complessa, difficile da monitorare e già piena di falle come denunciava Roberto Saviano in Gomorra nel 2006.
Di ragioni per desiderare una diversa industria tessile ne esistono altre. E ci riguardano da vicino. Le sostanze tossiche usate durante alcune fasi di lavorazione possono portare ad allergie e dermatiti o, nei casi più gravi, rivelarsi cancerogene. Per il rispetto dei diritti dei lavoratori e della nostra salute, sarebbe opportuno farci sedurre meno dalle campagne ammiccanti delle griffe della moda e attuare scelte più consapevoli. Di soluzioni possibili ne abbiamo rilevate molte. Potremmo resistere alla tentazione dei sogni scontati e cambiare look con meno frequenza scegliendo abiti di qualità che durino nel tempo. O potremmo ridare valore a baratto, riciclo e ricondizionamento creativo delle vecchie vesti ancora in buono stato evitando di gettare oltre 100.000 tonnellate di abiti all’anno. Ma soprattutto dovremmo esigere dai legislatori regole chiare che rendano più immediata la selezione dei capi realizzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori e della nostra salute. Dovremmo passare dall’apparenza alla trasparenza.